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Capitalismo e politica: quale futuro per il ruolo sociale dell’impresa?

di Giovanni Pizzochero, Head a|discover

Itre più grandi capitalisti del tempo presente (Musk, Bezos, Zuckerberg), che più volte hanno espresso letture politiche orientando il pensiero del mondo, di fronte al più importante uomo politico, già a sua volta “tycoon”. Sembra un’immagine surreale, ma è realtà. Sia a livello simbolico, sia per la natura (e pure l’agghiacciante postura gestuale di quello dei tre che ha incarichi governativi) dei personaggi in questione.

A partire dalla campagna elettorale di Trump si è finalmente ricominciato a parlare dei nessi tra capitalismo e politica, e quindi tra stato e mercato. Finalmente sui media generalisti, finalmente nell’agenda pubblica.

Ma non esattamente nel modo che speravamo. Sull’onda trumpiana molte grandi imprese hanno annunciato tagli alle politiche DE&I, disinvestimenti sul tema climatico, retromarce di posizionamento sui temi legati alla giustizia sociale e ambientale. Insomma, un salto all’indietro di almeno cinquant’anni.

Ciò ha innescato un interessante dibattito: le imprese ci hanno illuso per anni, lo facevano solo per marketing, ecco la vera natura del capitalismo, estrattivo e predatorio e pure opportunista, più rapido di tutti nel fare soldi, tritando tutto, le persone, i diritti civili, i desideri, gli attivisti. Ed ecco pure i consulenti (eccoci qua) che consapevolmente o meno hanno alimentato questa retorica e asserviti al capitalismo, accelerazionisti o solo paraculi, hanno contribuito a questo sfacelo. Ed infine ecco anche quelli del “io l’avevo detto”.

Alla base c’è un errore di valutazione e di giudizio, che è il grande errore che ha anticipato tutte le grandi trasformazioni storiche del tempo recente: perdere di vista l’avversario.

Che il capitalismo sia irriformabile (o meglio, incapace di auto riformarsi) è fuori discussione. Così come il fatto che sia l’unico modello al momento praticabile. In molti lo hanno definito una vera e propria sciagura, e non solo con la seconda vittoria di Donald Trump; lo abbiamo visto anche al G8 di Genova nel 2001, lo è stato in diversi altri momenti di svolta della storia, ma non è di questo che dovremmo parlare. La questione principale è che la politica non è in grado di riformare il capitalismo, mentre il capitalismo ha riformato la politica.

Prendersela con il capitalismo significa prendersela con un blob enorme e informe di forze spesso invisibili, intricate, nebulose, e ai più misteriose. Significa prendersela con una teoria astratta che lascia solchi profondi nel nostro quotidiano.

In parte ricorda quel movimento che se la prendeva con la politica, e non con determinati partiti, certe persone o certe aree di pensiero, ma con la politica tout court. Un passaggio storico che ha fatto dell’antipolitica un totem e che incidentalmente ha aperto le gabbie e le porte a una escalation al ribasso della qualità sia della politica che del dibattito. Ed eccoci qua, ora, senza politica come contrappeso, con il capitalismo al governo (per alcuni versi un’esperienza piuttosto familiare pure nella storia di un Paese governato per decenni da un imprenditore).

Insomma prendersela con la politica, o genericamente con il capitalismo, sottrae dal “fare i nomi”, ma soprattutto toglie dalla visuale l’avversario. Ovvio che questo capitalismo è Il problema, ma dentro quel magma etereo bisogna riconoscere chi è l’avversario di questo tempo e chi no. E perdere di vista l’avversario – o più in generale il conflitto o l’antitesi del proprio pensiero – spesso significa perdersi.

“Sparare nel mucchio” ( si perdoni la locuzione militarista), rendere l’avversario (della propria lotta) indistinto e indistinguibile contribuisce a perdere i propri riferimenti, un po’ come quando nelle battaglie medievali il portabandiera, il soldato più valoroso della truppa che con una mano combatteva con la spada e con l’altra teneva alte le insegne, perdeva la bandiera sul campo di battaglia: dentro il caos del combattimento, tra fango, urla, cavalli, polvere, rumore e paura, i soldati si sentivano persi, e senza le insegne della propria parte non distinguevano più se stessi dai nemici, non ritrovano più la propria identità, nello scontro con l’altra (liberamente tratto da un podcast di Barbero).

Se penso ai Millennials, ma anche alla GenX e alla GenZ vedo una generazione smarrita nella politica, sfiduciata, una generazione che aveva tante domande ma nessuno a cui porle. Nessuna controparte politica. Domande di senso (purpose?), domande sul sé, sui diritti della persona, sulle istanze di pluralità e rappresentanza, sul corpo, ma anche domande collettive, sui temi sociali, legati alle migrazioni di varia natura, al senso del lavoro, al ruolo dello Stato, al valore relazionale, ai beni comuni, all’ambiente. Non c’era più nessuna controparte politica.

Allora quelle domande sono state poste, in maniera estemporanea, ad altre grandi istituzioni del ‘900, quelle sopravvissute, più o meno in forma: alla Chiesa, per esempio. Qualcuno ha posto domande di trasformazione sociale sui temi di genere o di orientamento sessuale o sui modelli alternativi di famiglia, sulla contraccezione, alla più importante ierocrazia della Storia, tradizionalista e dogmatica, per poi – non poteva essere altrimenti – rimanere deluso dalla risposta.

Altri, nel vuoto di interlocuzione, hanno posto domande simili all’altra grande istituzione, al Capitalismo, che nel frattempo inglobava qualsiasi cosa incontrasse sul proprio cammino. Risultato: sono rimasti fagocitati insieme alle domande.

Altri ancora si sono tenuti le domande per sé e hanno cominciato a metterle alla prova nella loro quotidianità, che con il crescere e nell’evoluzione della vita diventava quotidianità lavorativa. Hanno posto queste domande al lavoro, con la frustrazione di non avere risposte da altri, nel tentativo di usare il lavoro come strumento di cambiamento dell’esistente. E il lavoro come istituzione vive in un solo ambiente possibile: dentro le imprese.
Abbiamo quindi più o meno volontariamente cominciato a chiedere alle imprese di diventare soggetto politico, un soggetto politico del quotidiano. Abbiamo chiesto alle imprese di diventare soggetti del cambiamento, spingendole attraverso il nostro lavoro e le nostre scelte (individuali, avendo perso il collettivo), provando a cambiare la loro forma. E dentro il capitalismo che si mangia tutto, dentro quel blob indistinto ci sono imprese e imprese. Certo, molte, e grandi ci hanno surfato sopra, ma tante altre no. Tante altre, fatte da persone, hanno saputo innescare processi di cambiamento, hanno provato a interpretare il proprio ruolo di attore territoriale, per esempio, o comunitario: soprattutto le piccole e medie realtà, che sempre dentro il capitalismo stanno, ma che non sono ‘il’ capitalismo.

Non valgono le generalizzazioni: alcune imprese possono sviluppare un grande potenziale di cambiamento e in questo momento confondere il capitalismo con le imprese è un grosso errore che favorisce il trionfo di un certo tipo di retorica. Ci sono imprese ciniche, ci sono imprese virtuose, ci sono imprese indifferenti al dibattito pubblico, ci sono imprese che fanno del senso un motivo di esistere. Ovviamente queste ultime sono poche.
Ma ora si intravede quel parallelismo con l’antipolitica, che distruggendo la politica ha aperto la porta al pensiero più reazionario. Eppure dentro quella politica c’erano molte cose buone, così come dentro il capitalismo ci sono ovviamente alcune imprese buone. Ci sono nuove forme di impresa, c’è uno spiraglio (piccolo) in certa cultura manageriale, ci sono nuovi spazi tra profit e non profit, ci sono ragionamenti sulla gestione dei beni collettivi. Negarlo rischia di lasciare campo libero alla retorica dei Musk e dei Musk all’italiana. Negarlo rischia di portare quelle stesse domande al prossimo soggetto che ci deluderà. O forse potrebbe non deludere, se al centro di tutto riuscirà tornare ancora una volta la politica, una buona politica, che deve avere un predominio sulle dinamiche di impresa.

Non è il momento di abbandonare lo spazio del dibattito sul ruolo sociale dell’impresa. Ci sono tante imprese e organizzazioni private che riabilitando la politica possono muovere un’azione pubblica interessante, trasparente, intelligente e di valore, capace di contribuire a quell’impatto collettivo che non spenga il desiderio di cambiamento, sperando che quanto abbiamo seminato non sia stato vano, ma debba solo trovare lo spazio per germogliare tra le rocce.

Per approfondire:
> Fuori da X
> Il declino del capitalismo dell’inclusione, Alessandro Sahebi

> La battaglia sul clima perde pezzi: anche BlackRock lascia il gruppo anti CO2, Il Sole 24 ore

 

 

 

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