di Giovanni Pizzochero, Head di a|discover
«You don’t quit skating cause you get old, you get old because you quit skating».
Jay Adams
C’era una volta un’antica liturgia tanto amata dalle grandi corporate e dagli enti di terzo settore, per lo meno quelli più strutturati: il rito dello stakeholder engagement. Il sacerdote (solitamente il/la CSR manager, ma non solo) e il suo chierichetto (il consulente, che tante volte sono stato io, giusto per chiarire che questa è una autocritica), ispirati dalle scritture della linea guida AA 1000 SES, celebravano il processo di ascolto e – in teoria – il dialogo e coinvolgimento dei principali interlocutori di un’organizzazione per incoraggiare la qualità nei rapporti, attivare processi di soddisfazione delle relative istanze e avviare opportunità di partnership innovative. Lo stakeholder, ignara vittima sacrificale e al contempo divinità effimera dal nome collettivo, sedeva all’altare. Una celebrazione annuale, sempre un po’ ripetitiva.
Le prassi degli standard di reporting e un certo approccio agli adempimenti normativi, che ha fatto scuola anche verso imprese non soggette all’obbligo di rendicontazione non finanziaria, hanno reso il confronto con lo stakeholder un momento formale, un processo, una parentesi dovuta, utile prevalentemente a validare alcune posizioni, a rafforzare relazioni (con o senza buffet), finanche a recepire istanze, la maggior parte delle volte disattese.
Una liturgia talmente diffusa (la mappatura degli stakeholder prima, la selezione di quelli più raggiungibili tra quelli più vicini, la predisposizione di questionari attorno a cui interrogarli) e talmente omogenea per tante imprese che ha reso quello dello stakeholder un vero e proprio mestiere (stagionale, tra novembre e marzo, e purtroppo non retribuito).
La mansione è quella di contribuire più o meno volontariamente all’analisi di materialità, espediente narrativo utile a costruire i processi annuali di reporting (nella migliore delle ipotesi) o quel gioco da tavolo simile alla battaglia navale in cui i puntini di anno in anno si spostano su una matrice cartesiana. Rilevanza per il business/impatto A4, C6: colpito e affondato.
LO STAKEHOLDER ENGAGEMENT: UNO STRUMENTO CONTROVERSO
Al di là del calembour e dell’ironia, sono fermamente convinto che lo stakeholder engagement sia uno degli strumenti più potenti di democratizzazione delle organizzazioni e, in generale, dei processi economici.
Aprire i processi decisionali, integrare la “Voice of the Voiceless” (per citare i Rage Against the Machine); confrontarsi, anche in modo conflittuale con chi detiene lo stake, soggetti “i cui diritti sono violati o rispettati dall’azione dell’impresa” in una delle definizioni più belle (Freeman e Evan, 1988), ovvero tutti quegli individui o quei gruppi dai quali l’organizzazione dipende per la propria sopravvivenza, nella definizione più comune.
Accoglierne le istanze ma aprire canali permanenti di dialogo, ovvero di parità informativa, e di coprogettazione su ambiti specifici, attingendo all’intelligenza collettiva in una logica di reciprocità, di valore e valori condivisi. Ipotizzare forme di governance aperta, perché ogni organizzazione (in particolare di impresa) lambisce temi legati ai beni comuni (la conoscenza, il paesaggio, l’acqua o i servizi ecosistemici, il territorio) e al bene comune (l’azione pubblica che ogni impresa innesca, più o meno volontariamente).
Eppure, per come è stato utilizzato fino ad oggi dalle imprese e dalle grandi organizzazioni, l’engagement è stato spesso uno strumento controverso. L’ascolto è andato a farsi benedire perché per decenni si è tradotto in uno strumento estrattivo, spesso in un vero e proprio saccheggio. L’impresa arriva, solleva aspettative, chiede, raccoglie e spesso interrompe subito il circolo virtuoso del plan – do – check – act. E poi non resta nulla (nella migliore delle ipotesi) o risposte strumentali alle esigenze raccolte.
Esiste una disparità di “potere” tra chi pone la domanda (il soggetto forte) e chi dovrebbe dare la risposta (il soggetto debole). Raramente l’atto dell’engagement è preceduto da processi di allineamento informativo e ciò rende il confronto spesso stereotipato (legato a tecnicismi), in un gioco delle parti arroccato su posizioni predefinite. Si può chiamare partecipazione solo se gli stakeholder detengono una certa quota di potere, altrimenti questa partecipazione senza potere è solo sfruttamento. Come questi processi garantiscono l’empowerment degli stakeholder? Come lavorano sul conflitto affinchè diventi generativo?
Infine, in questa terribile fase storica di crisi della rappresentanza, spesso lo stakeholder interpellato non porta altro che la propria voce e frequentemente incarna esso stesso una dissonanza tra voci diverse: è attivista, cittadino o cittadina, lavoratore, magari è anche genitore e non sempre tutte queste voci cantano all’unisono.
UN NUOVO INTERLOCUTORE NEI PROCESSI DI ENGAGEMENT
E così, mentre negli uffici delle imprese si consuma la liturgia dell’engagement, sui marciapiedi e nella piazzetta proprio davanti all’ingresso dell’ufficio si palesa con un ollie il vero interlocutore dei processi di engagement: lo skate-holder, che con la sua tavola a rotelle utilizza lo spazio pubblico come spazio creativo, performativo, artistico, culturale e aggregativo, scardina le liturgie e si pone come interlocutore privilegiato per offrire nuovi visioni di futuro alle organizzazioni. Non ha rappresentanza, ma ha tante idee, e pure una certa grinta, e una certa visione del mondo corsara. Sta nella contemporaneità, vede e sente quel che succede attorno. Insomma, vive la strada e conosce bene il suo quartiere, le relazioni con la crew, le regole informali del gioco.
Ma lo skate-holder è un compagno di un dialogo selettivo e orientato solo se l’impresa parte da una propria visione del mondo (inteso come territorio, spazio fisico, ma anche come spazio del possibile) e la valida e itera con “i soggetti del mondo”, con chi abita e vive lo stesso ambito. Tutto sommato invita al gioco, al mettersi alla prova, ma anche a un nuovo terreno di gestione del conflitto, di negoziazione dello spazio pubblico e dei temi collettivi e pure di rinegoziazione delle regole di interlocuzione con tutti gli interlocutori, in una logica di coprogettazione.
DA STAKE-HOLDER A SKATE-HOLDER
Lo stakeholder engagement oggi è la capacità di ibridare i processi decisionali delle organizzazioni aprendoli al conflitto, alla critica, all’agonismo, cercando nella reciprocità di valore la strada per una nuova cittadinanza, sui territori, ma anche nei mercati.
Oggi lo stakeholder è uno skate-holder, vivǝ, sudatǝ e pulsantǝ che ha punti di vista divergenti rispetto allo standard di impresa. “Osservatori” privilegiati, che non prescindono da ambiti di azione e territori ma sono in grado di suggerire nuove direzioni nel rapporto con le comunità o con i macro temi di riferimento. “Innovatori”, soggetti con cui interpretare l’approccio generativo. “Desideranti” nella misura in cui aspirano al cambiamento collettivo, a lavorare sull’aggregazione di intenzioni e sulla loro realizzazione, a trasformazioni collettive e radicali.
Si tratta di soggetti in grado di facilitare il ruolo delle imprese come innesco di impatto facendo leva sulla mobilitazione, capacitazione e sostegno di chi è già attivo per il bene comune, per valorizzarne competenze, creando sinergie tra risorse e attori, innescando processi di sviluppo intorno a interessi comuni.
Come permettere la partecipazione di tutti questi skate-holder ai processi decisionali? Come può l’engagement diventare strumento di empowerment e come l’empowerment può diventare un dispositivo di aggregazione anche in forma organizzata verso la risposta a bisogni e desideri in modo maieutico e non coloniale? Come aprire la porta alle “voci capaci di futuro”?
È possibile in un modo solo, ovvero ricordandosi che cosa significa la parola inglese “engagement” nel linguaggio comune, ovvero fidanzamento. E, come in ogni relazione che si rispetti, il meglio per l’engagement è il meglio per i singoli, in un passo armonico e condiviso verso il futuro. Ascolto, dialogo, coprogettazione. Fiducia, trasparenza, reciprocità. Insomma, nessuna ricetta e nessuna linea guida nello stakeholder engagement, ma un flusso sanguigno di vita, per fare entrare la realtà di chi vive i temi della contemporaneità dentro i muri dell’impresa.
Per approfondire:
> Relazioni impresa e territorio: energie per la transizione
> Design per l’impatto sociale, il nuovo corso promosso da Avanzi e PoliDesign
> Comunità di desiderio. Strumenti per l’agire collettivo