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Imprese, diritti, sostenibilità: il Parlamento Europeo approva la direttiva sulla due diligence

di Fulvio Rossi – Senior advisor Avanzi (OIIDU) e Francesca Bongiovanni – consulente a|change

Se ne parla da più di due anni, quando nel marzo 2021 il Parlamento Europeo ha adottato una risoluzione per varare uno strumento legale e vincolante che riguardasse la responsabilità delle imprese sui diritti umani e l’ambiente lungo le catene di fornitura globali.

Una delle più estenuanti negoziazioni europee di sempre, tra passi indietro imprevisti e compromessi sul filo del rasoio, si è conclusa finalmente il 24 aprile con l’atteso voto in plenaria e l’approvazione del Parlamento Europeo. Per ironia della sorte, il voto è avvenuto nello stesso giorno del disastro di Rana Plaza undici anni fa, quando un grande stabilimento tessile in Bangladesh crollò seppellendo sotto le sue macerie più di mille operai e ferendone diverse centinaia, appartenenti alla catena di fornitura di conosciuti brand occidentali.

Ripercorriamo le tappe principali che la Direttiva ha dovuto superare fino ad essere – tardivamente, ma finalmente – approvata.

DALLA PROPOSTA ALLO STALLO

La norma, proposta dalla Commissione a febbraio 2022, aveva completato il lungo iter comunitario con l’accordo dello scorso 14 dicembre nel trilogo tra le istituzioni europee. A febbraio, la situazione si è ribaltata, segnando un momento buio in cui si è temuto per il destino della Direttiva: per settimane, l’accordo raggiunto ha rischiato di essere affossato, in particolare a causa della retromarcia in extremis di Italia e Germania, decise ad astenersi nonostante avessero sostenuto precedentemente il testo – astensione che, ai fini del voto a maggioranza qualificata, equivale a dichiararsi contrario.

L’improvviso cambio di posizione è stato determinato, nel caso italiano, dalle pressioni del sistema imprenditoriale; nel caso tedesco, dallo scetticismo dei liberali che compongono la coalizione di governo. Come per le nuove norme a tutela dei riders in corso di discussione a livello europeo, abbiamo assistito ad una minoranza di blocco di un gruppo di paesi, influenzati da grandi associazioni industriali nazionali o dallo stretto legame dei governi con esse.

Questa posizione di rigetto non era propria, peraltro, dell’intero mondo imprenditoriale: mentre Il Sole 24 Ore pubblicava un articolo in prima pagina contro l’approvazione della Direttiva, paventando l’aumento intollerabile di oneri amministrativi e costi, Legacoop e CNA (Confederazione Nazionale dell’Artigianato e della Piccola e Media Impresa) si schieravano a favore, così come singole imprese – ad esempio Ferrero – firmavano appelli internazionali per l’approvazione.

Lo stesso in Germania, dove una legge nazionale già in vigore ha anticipato i contenuti della Direttiva. Questa differenza di posizioni non sorprende: non è la prima volta che si evidenzia una distinzione tra chi investe nella sostenibilità come fattore di competitività e chi cerca di difendere lo stato di fatto, mettendo a rischio la propria stessa capacità di essere protagonista in futuro.

L’ACCORDO

L’accordo informale è infine arrivato a metà marzo alla riunione del Coreper, organismo composto dai capi delegazione degli Stati membri europei, che prepara il campo alla discussione finale del Consiglio. La presidenza belga è riuscita a mediare fra gli interessi contrastanti e le prese di posizione dell’ultimo minuto.

Per conciliare le diverse richieste, il risultato è stato un accordo su un testo molto ridimensionato, nelle ambizioni e nella portata, rispetto alla versione originale. In particolare, la soglia di fatturato per applicare le nuove regole è stata triplicata, riducendo del 70% le imprese che saranno coinvolte rispetto al campo di applicazione originario.

Un primo commento riguardo al processo decisionale, che ha deluso le aspettative riposte nelle istituzioni sovranazionali. Solitamente, dopo negoziati durati anni e accordi politici preliminari, il voto sull’accordo finale dovrebbe essere una formalità, essendoci stati i tempi e i momenti necessari per mediare tra i diversi interessi. Eppure – come riportato dai media – sono state avanzate richieste unilaterali all’ultimo momento, secondo logiche di scambio di voto riguardanti altri processi legislativi. Si tratta di una grave macchia nella capacità delle istituzioni europee di garantire un processo trasparente e lineare, in linea con il proprio mandato.

I PUNTI PRINCIPALI DELLA DIRETTIVA

Rispetto ai contenuti dell’accordo, come anticipato, questi smussano notevolmente la portata dirompente della norma originaria.

Le nuove regole si applicheranno solo alle imprese con più di mille dipendenti e un fatturato globale maggiore di 450 milioni. Considerando che le soglie nel testo precedente erano rispettivamente 500 dipendenti e un fatturato di 150 milioni, si tratta di un salto quantico che non era mai stato proposto nei due anni di trattative precedenti, e che avrà inevitabilmente delle conseguenze sulla capacità della Corporate Sustainability Due Diligence Directive di creare un cambiamento diffuso per la protezione dei diritti umani e degli ecosistemi in tutto il mondo.

Anche le tempistiche di applicazione sono state diluite, prevedendo una maggiore gradualità nell’entrata in vigore che sostanzialmente porta la sua piena applicazione, anche alle imprese con più di mille dipendenti, a fine decennio.

Inoltre, era previsto inizialmente che gli obblighi sarebbero valsi anche per le medie imprese – con più di 250 dipendenti e un fatturato superiore a 40 milioni di euro – nei settori più ad alto rischio, ovvero per la produzione e commercio all’ingrosso di prodotti tessili, abbigliamento e calzature, agricoltura, silvicoltura e pesca, produzione di alimenti e commercio di materie prime agricole, estrazione e commercio all’ingrosso di risorse minerarie o fabbricazione di prodotti correlati e edilizia. Questo approccio risk-based è stato stralciato nel testo finale.

Ancora, sono stati ridotti i confini della value chain entro i quali la normativa si applica: la parte di downstream è stata confinata eliminando la fase di smaltimento del prodotto, e più in generale l’ambito di applicazione è stato limitato ai business partner che svolgono attività per la compagnia, mentre prima si parlava di “rapporti indiretti”.

Infine, nessun passo avanti si è fatto rispetto al settore finanziario, rimasto escluso dalla direttiva come già nei precedenti testi.

Nonostante quello approvato sia un testo indebolito, restiamo convinti che la nuova Direttiva rappresenti uno storico passo avanti per i diritti umani e l’ambiente, utile a superare la frammentazione normativa e a creare una cultura comune sulla valutazione e la gestione dei rischi.

Soprattutto, la direttiva riconosce a livello legislativo e sovranazionale la responsabilità delle imprese nella gestione dei loro impatti sui diritti umani e sul clima, anche quelli connessi alla loro catena del valore.

Fino a questo momento, la grande maggioranza di tali impatti erano noti, ma difficilmente le imprese erano tenute a risponderne. Ora non è più ammessa l’assenza di dovuta diligenza da parte di queste ultime nel riconoscerli e prevenirli, anche a loro stessa tutela. Comincia una nuova fase.

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