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Il prezzo da pagare per i capi che indossiamo

di Francesca Bongiovanni, Consulente a|change

Quando il 5 aprile un provvedimento del Tribunale di Milano ha posto in amministrazione giudiziaria la Giorgio Armani Operations [1] a causa di presunto sfruttamento del lavoro, la reazione è stata di diffuso stupore: la violazione di diritti umani non avveniva in qualche Paese molto lontano da noi, ma a poca distanza da Milano, e coinvolgeva un brand dell’alta moda italiana, settore che nell’immaginario comune e nelle intenzioni si dipinge come una vetrina scintillante di sostenibilità e pratiche etiche e artigianali.

L’inchiesta ha rivelato che le attività produttive erano state subappaltate a laboratori che impiegavano manodopera cinese in nero, con orari di lavoro massacranti e paghe orarie molto basse. Negli stabilimenti, per altro non autorizzati, la lavorazione avveniva in ambienti insalubri, con gravi violazioni delle norme di sicurezza – ad esempio, i lavoratori erano ammassati in dormitori abusivi e in condizioni igienico-sanitarie al di sotto degli standard etici minimi.
L’amministrazione giudiziaria è una misura preventiva prevista dalla legge 159/2011, che pone la società sotto il controllo di un amministratore esterno, di fatto commissariandola per un periodo minimo di un anno, senza però che la società stessa sia indagata.

Non è la prima volta che l’alta moda si trova a fronteggiare violazioni dei diritti umani legate al mancato controllo della filiera produttiva.

Un caso estremamente simile risale a solo un anno fa e coinvolge il marchio Alviero Martini. L’azienda si affidava a ditte cinesi senza verificare adeguatamente la loro capacità di fornire gli articoli ordinati; le ditte a loro volta esternalizzavano le commesse ad altri opifici cinesi situati nell’hinterland milanese, che sfruttavano manodopera irregolare. Questa operazione permetteva di ridurre il costo di produzione a circa venti euro, per prodotti venduti nei negozi fino a un prezzo di trecentocinquanta.

Ad oggi, la prima relazione degli amministratori giudiziari, a sei mesi di distanza dall’intervento, è stata positiva: Alviero Martini ha deciso di rescindere il contratto con un fornitore coinvolto in un incidente mortale sul lavoro avvenuto a maggio 2023 e ha iniziato a implementare il modello 231, oltre a un processo di due diligence per migliorare il controllo della filiera.

Ma i casi non si fermano qui. Anche Loro Piana, storica azienda italiana che nel 2013 è stata venduta alla multinazionale del lusso LVMH, è stata accusata di ricorrere a metodi discutibili per reperire la sua lana più pregiata. Secondo un’inchiesta del magazine Bloomberg Businessweek, l’azienda ottiene la lana di vigogna (un animale selvatico delle Ande simile all’alpaca ma con un mantello più morbido e pregiato) attraverso lo sfruttamento dei lavoratori peruviani. Bloomberg denuncia come la retribuzione offerta dall’azienda sia estremamente bassa, lasciando di fatto la comunità locale in condizioni di estrema povertà e senza possibilità di crescita o di avviare autonomamente la lavorazione della preziosa lana.

UN FENOMENO ANCHE ITALIANO

Questi episodi ci mettono di fronte ad una duplice consapevolezza.
Nel settore della moda e nelle sue lunghe filiere che si snodano agli estremi del globo, non serve andare lontano: l’Italia non è immune ai fenomeni di lavoro illegale, informale e precario. Soprattutto nelle catene di subfornitura, dove si annidano situazioni preoccupanti di violazione dei diritti fondamentali come salari bassissimi, mancanza di sicurezza, rischi per la salute, precarietà contrattuale.

Il Fashion Transparency Index ha recentemente rivelato che il 99% dei principali marchi di moda non segnala il numero di lavoratori nella loro catena di approvvigionamento che percepiscono un salario dignitoso. Questa mancanza di trasparenza è un indicatore chiaro dei profondi problemi che pervadono l’intero settore, dal fast fashion all’alta moda.
D’altro canto, non sono solo i giganti del fast fashion ad essere coinvolti. Qui, le violazioni dei diritti umani non ci stupiscono ormai più di tanto: solo per citare il caso più recente, due delle più grandi aziende europee di fast fashion, Zara e H&M, sono state accusate dall’ONG inglese Earthsight di aver utilizzato tonnellate di cotone legate a pratiche di land grabbing, espropri di terre e violenze, per la realizzazione dei loro capi.
Ormai è chiaro, il fenomeno non risparmia neanche i marchi con margini di guadagno ampiamente più elevati; fast fashion e alta moda sono solo due facce della stessa medaglia.
Il nodo principale resta quello del controllo sulla catena di fornitura. L’impoverimento dei lavoratori scaturisce da uno sbilanciamento dei rapporti di forza lungo la filiera, dove i grandi marchi esercitano un potere negoziale tale da poter imporre condizioni insostenibili. Talvolta i prezzi imposti sono così bassi da impedire ai fornitori di rispettare le norme del codice etico che essi stessi hanno sottoscritto.
Tutto questo nonostante le aziende del lusso, rispetto a quelle del fast fashion, abbiano una filiera più corta e fatto della sostenibilità un pilastro della loro strategia.

L’ARRIVO DELLA DIRETTIVA CSDDD

Si spera che un cambio di passo arrivi con l’avvenuta approvazione della Corporate Sustainability Due Diligence Directive, che prevede che le imprese controllino e diano conto della tutela dei diritti umani lungo tutta la loro catena di attività, sia a monte che a valle.
Non sarà più sufficiente richiamare il rispetto del Codice di condotta al fornitore: la Direttiva pretende che la relazione con tutti i partner commerciali venga regolata attraverso delle clausole contrattuali che non scarichino su quest’ultimo pesi e oneri, rendendo di fatto la società immune. L’obbligo della due diligence grava in capo al buyer – in questo caso, per intenderci, il grande marchio.
Se questa normativa fosse già stata in vigore, il destino degli illeciti di Armani e Alviero Martini sarebbe stato ben più aspro: siamo infatti di fronte, in entrambi casi, all’assenza di una due diligence adeguata e di una verifica concreta di come le attività fossero svolte.
O, viceversa (opzione che ci auguriamo tutti, anche per il futuro), non si sarebbe assistito alla violazione, grazie all’implementazione di un adeguato strumento di due diligence.

Per approfondire:

> Imprese, diritti, sostenibilità: Il parlamento europeo approva la direttiva sulla due diligence
> Finanza sostenibile: luci e ombre degli indici ESG
> L’Osservatorio Italiano Imprese e Diritti Umani (OIIDU) presenta il suo secondo report

Note:

[1] Società del gruppo Armani che si occupa della progettazione e produzione di abbigliamento e accessori

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