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Il riconoscimento di Corvetto

Ramy Elgaml è morto a Milano, zona Corvetto, dopo un inseguimento dei carabinieri, la notte tra sabato e domenica. Era a bordo di uno scooter Tmax guidato da un amico tunisino di 22 anni. Lui, 19 anni, era dietro. Non si erano fermati a uno stop dei militari, che hanno deciso di inseguirli. Resta da chiarire la dinamica, se cioè la macchina dei carabinieri abbia urtato, e di proposito, lo scooter provocando la caduta fatale per Ramy. Subito dopo la morte ci sono state proteste e disordini nel quartiere.

di Claudio Calvaresi, Principal a|place

Ho ascoltato, su suggerimento di un amico-collega, l’intervista di Radio Popolare a un ragazzo di Corvetto. Ha un tono fermo, pacato. Dice di volere giustizia, verità, luce sui fatti. Riconosce che la notizia dell’iscrizione nel registro degli indagati del carabiniere inseguitore ha placato la tensione in quartiere. Afferma che, in quelle ore a Corvetto, sono arrivati ragazzi da altre zone di Milano, ma anche da fuori città o addirittura da altre regioni. È il segno della necessità di esserci, di affermare una presenza di fronte a un fatto che è parso inaccettabile; la risposta a una chiamata di condivisione di un lutto; un moto di ribellione dettato dalla percezione di un’ingiustizia, da parte di persone che non conoscevano Ramy Elgami. Queste hanno esercitato la loro prossimità, si sono fatte vicine al ragazzo morto e si sono riconosciute toccate da una condizione collettiva.

Corvetto è diventato un campo dove si sono resi visibili gli indesiderabili. Vi si sono convocati, per denunciare la mancanza di riconoscimento, esprimere la richiesta di vederla colmata, esercitare il proprio diritto al riconoscimento. Chiedono di essere visti. Di più, chiedono di superare una doppia condizione di invisibilità: la propria e quella di uno Stato che «si fa vedere soltanto a sua convenienza», come ad un certo punto dice il ragazzo.

Dunque, chiedono di riportare alla luce sia lo Stato che gli indesiderabili, liberandoli dalle versioni stereotipiche cui entrambi sembrano essersi costretti: il primo, scegliendo un’epifania in forma poliziesca; i secondi, assumendo il ruolo di casseur.

Nelle parole del ragazzo, non c’è nessun indizio di radicalizzazione. Sono i miserabili nella città, che bruciano il quartiere per manifestare la loro presenza. Non si può nominare come rabbia delle periferie, non tanto perché non esistono le periferie (come scrive Biondillo su Repubblica), ma perché la rabbia nasce da un’assenza che la città manifesta. È una rabbia che ingaggia un corpo a corpo con la città. È una rabbia con le periferie, che le periferie appunto incorporano, trattengono e, a volte, rilasciano.

Corvetto è infatti lo sfondo, la condizione materiale dell’esclusione. Qui – afferma ancora il ragazzo – non ci sono opportunità, servizi, un campetto da calcio. La sfera pubblica, a fronte di una domanda di cura, di protezione, di riduzione dei divari, di contrasto alle disuguaglianze socio-spaziali, di aspirazioni da coltivare, di giustizia, ha risposto promuovendo sperimentazioni generose, sostenendo iniziative dal basso, tentando progetti di riqualificazione rimasti incompiuti, in assenza però di un progetto integrato e di una presenza stabile, in sostanza contraendosi.

La città è il terreno della privazione, ma nello stesso tempo anche il campo dell’affermazione di sé, dove si mobilitano (occasionalmente, per improvvisa insorgenza), aggregazioni occasionali, “comunità in corso” di chi non ha nulla in comune, se non la propria condizione di non riconoscimento.

Ci attendono – credo – momenti interessanti, in cui la relazione dei giovani con la città manifesterà forme diverse: di rabbia, di conflitto aspro, ma anche di presa di parola e di pratiche che vogliono farsi spazio. Nel senso di conquistare la scena, ma anche di assumere lo spazio come veicolo di riconoscimento. Io ci vedo una speranza, in un paese invecchiato e spento. E in una città ripiegata, che vive una contrazione di sé per troppa sicurezza, che solo una pubblicistica sciatta riconduce al comodo termine che tutto spiega della gentrificazione, perché è molto di più e di peggio: è concepire lo sviluppo come sopraffazione.

Per approfondire cosa sta accadendo:
> Corvetto, il risveglio dopo una seconda notte di rabbia diventata fuoco
> Non chiamatela banlieue: al Corvetto è la rabbia di una generazione che abbiamo abbandonato

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