di Giovanni Pizzochero, principal a|change
È sempre più attuale (e controverso) il dibattito sul ruolo politico delle imprese. Non certo un tema nuovo, in particolare in Italia, dove le grandi imprese hanno da sempre influenzato le scelte di sviluppo del Paese, dalle politiche del lavoro, alle politiche sulla mobilità, alle politiche energetiche e talvolta estere, fino alle politiche sul turismo (esercizio piuttosto semplice, che lascio al lettore, quello di collocare gli ipotetici brand accanto ai relativi temi di influenza).
Osservando solo gli ultimi mesi è risultato particolarmente evidente come le imprese interpretassero con diversi gradienti di efficacia la propria responsabilità (letteralmente capacità di rispondere) di fronte all’emergenza sanitaria. Non solo e non tanto le discusse imprese farmaceutiche coinvolte nella produzione dei vaccini, ma tutto il tessuto imprenditoriale nella gestione, o non gestione, delle diverse fasi di questo anno incredibile, dal lockdown, ai protocolli di sicurezza sui luoghi di lavoro, alle politiche di smart working, al tracciamento, fino alle scelte di welfare integrativo.
Insomma da sempre le imprese sono un soggetto che opera attorno all’interesse collettivo (le molte medio piccole su scala locale, le grandi anche su scala nazionale), ma oggi – forse per la prima volta – è stata data loro, per lo meno stando all’osservazione del dibattito pubblico, maggiore legittimità ad operare, dal mercato, dalle istituzioni, dai consumatori e anche dalla politica stessa.
Oggi sempre più (alcune) imprese possono configurarsi intenzionalmente come soggetti che operano per l’interesse generale. Oltre la CSR, oltre la sostenibilità del business, rivolgendosi al territorio come attore rilevante del processo produttivo – in stretta relazione con soggetti civici e istituzionali.
Nella nostra esperienza, riteniamo che la scala più adatta a sperimentare l’impresa come attore pubblico sia quella locale. Un perimetro sufficientemente piccolo per osservare gli effetti del cambiamento, ma abbastanza grande per attivare re(l)azioni a catena. Un milieu vicino al “terrestre” (come direbbe Latour) e al contempo capace di generare “conversazione con i luoghi, perché il valore è unico a un luogo e i luoghi sono generativi di valore” (per citare Venturi e Zandonai).
Un contesto capace di rispolverare il concetto ormai demodè di cittadinanza d’impresa, reinterpretandolo e rigenerandolo immaginando l’impresa come abitante di un territorio, come abbiamo scritto qui.
“Il passaggio alla condizione di abitante significa condividere un pezzo di destino, capire come [l’impresa] con il proprio stare possa diventare parte attiva delle dinamiche di sviluppo di uno specifico contesto: per raggiungere questa condizione o almeno avviarsi in questa direzione è fondamentale farsi prossimi, e farsi prossimi vuol dire passare più tempo nei luoghi che indaghiamo, un tempo più ampio del tempo breve della ‘missione’”.
Riteniamo che ci siano quattro privilegiate categorie di imprese particolarmente adatte ad interpretare il ruolo dell’azione politica (e civica) locale, sposando il tema del cambiamento e rafforzando il loro operare nell’interesse collettivo:
- i soggetti che operano attorno ai beni comuni: acqua, vento, sole, paesaggio, terra, saperi, etc. integrano nella loro funzione di produzione elementi condivisi, pezzi di quei luoghi descritti poco sopra;
- i soggetti che erogano servizi di interesse pubblico, come le utilities o tutte le realtà che operano per la tutela e il buon equilibrio del territorio;
- i soggetti place-based, ovvero quelle imprese che non possono che essere collocate lì, vuoi per questioni infrastrutturali o geografiche, vuoi per questioni di sinergie con distretti o filiere;
- i soggetti che appartengono alla memoria collettiva di una comunità, ovvero imprese che raccolgono al proprio interno la storia e l’identità di un luogo.
Essere cittadini di un territorio significa avere diritti ma anche e soprattutto doveri. Doveri di restituzione, di mitigazione dell’impatto, di redistribuzione in primo luogo (per non parlare della conformità normativa e fiscale, che daremmo volentieri per acquisita).
Ma oggi, soprattutto, il dovere di aprire canali di dialogo su temi di interesse comune per costruire percorsi di coprogettazione. Il dovere di tessere relazioni con la civis, di costruire capitale relazionale e abilitare nuovi flussi di sviluppo.
Ma come fare nel concreto a trasformare un’impresa in un agente di sviluppo territoriale sostenibile?
In primo luogo, è necessario che l’organizzazione costruisca una propria lettura dei territori che abita: una lettura che sia coerente con la propria identità, in filiera con i bisogni identificati dai soggetti pubblici e che restituisca ambiti di intervento prossimi al business, connessi con la propria missione. Che l’impresa faccia l’impresa e non le si chieda di essere attivista o movimentista (non lo può essere per sua natura e per il sistema economico in cui è inserita).
In secondo luogo l’impresa andrà dunque a caccia di innovatori sociali: non più un ascolto generalizzato degli stakeholder, ma un ingaggio delle esperienze (culturali, sociali, civiche o economiche) che già operano sulle priorità identificate.
In terzo luogo, l’impresa si “metta al servizio”, mediante le proprie competenze, i servizi, i prodotti, gli asset, i network, il brand – di tali soggetti e li abiliti, lavori per il capacity building e per facilitarne il salto di scala. Non una impresa che fa, ma una impresa che mette nelle condizioni di fare, costruendo reti e veicoli (anche eventualmente finanziari) di supporto.
Infine l’ultimo passaggio: l’impresa ridefinisce, laddove possibile, la propria catena del valore e la propria funzione di produzione per divenire essa stessa soggetto di impatto, intenzionale, addizionale e in modo integrato al business. Ridefinisce le proprie attività core, e la propria identità, per lavorare in modo nuovo attraverso il potenziale del proprio business.
È con questo percorso che l’impresa potrebbe crescere armonicamente con il proprio ecosistema, farsi parte di un arcipelago e soggetto abilitante di (politiche e) pratiche di sviluppo territoriale, in particolare, in aree marginali dove più intensi sono i bisogni e più deboli le capacità di rispondervi.