di Marco Boccardi, a|change
Un soggetto che abita uno o più luoghi, ne attinge risorse comuni, genera valore e tesse relazioni con un ecosistema di attori. L’impresa non crea solo business, ma dinamiche locali di varia natura: un ponte per trovare nella comunità una maggior legittimazione a operare localmente, con ricadute positive in termini di accettazione e reputazione. Viceversa, per i soggetti locali, costituisce un’occasione di dialogo sull’inserimento di un nuovo attore nelle traiettorie di sviluppo territoriali.
Quello del dialogo tra “abitanti” è un tema che diventa strategico soprattutto per le organizzazioni che, per loro natura, sono presenti sul territorio attraverso asset fisici che rischiano di minacciare le dinamiche comunità – territorio. Un tema cui abbiamo dedicato diverse riflessioni [1].
UNA TRANSIZIONE SU DOPPIA SCALA
Chi opera nel settore energetico oggi deve affrontare la transizione non solo energetica ma anche relazionale, ripensando parallelamente ai modelli di produzione e a quelli di abitare i territori. Queste imprese, infatti, occupano un ruolo centrale su due scale differenti: quella globale per far fronte alla sfida climatica e abilitare nuove logiche di produzione e consumo grazie allo sviluppo di nuovi asset rinnovabili, e quella locale dovuta al fatto che, dal momento in cui la sua evoluzione è univocamente geolocalizzata in uno specifico territorio in cui l’impresa diventa un soggetto placed-based [2], utilizza risorse comuni e ne connota il paesaggio.
Scale differenti che richiedono tempi differenti. La velocità (auspicabile) di una urgente transizione energetica si scontra con le più delicate dinamiche di trasformazione di un’identità territoriale, paesaggistica e culturale.
La posta in palio non riguarda solo la creazione di consenso, ma ambisce a (co-)costruire le condizioni per radicare sinergie proficue e abilitanti per entrambe le parti in gioco.
GLI IMPATTI COLLATERALI DELLA TRANSIZIONE ENERGETICA
È ormai chiaro che la transizione energetica non è solo una rivoluzione dal punto di vista ingegneristico e infrastrutturale; i suoi impatti collaterali sono invadenti e devono essere governati. Si pensi solo a come in quest’epoca si stia creando una nuova cultura dell’energia, che coincide spesso con la consapevolezza sulla sua provenienza e sul consumo responsabile. C’è poi la questione occupazionale, che è di ambito formativo dal momento in cui deve fare i conti con l’aggiornamento delle competenze degli addetti, ma assume una pertinenza geografica se si pensa alla localizzazione delle imprese e, quindi, alla distribuzione della forza lavoro sul territorio.
Ci sono poi impatti, tangibili o meno, che hanno un chiaro epicentro laddove la produzione è radicata. Siamo nel perimetro territoriale interessato dalla presenza delle infrastrutture, luoghi in cui i nuovi residenti si trovano a convivere in una situazione di mutuo interesse/conflitto con chi lì ci abita da sempre.
L’impressione è quella che la transizione energetica stia ridisegnando gli equilibri del triangolo risorsa-territorio-uomo. Un equilibrio che viene raggiunto attraverso il bilanciamento dei capitali di varia natura in gioco: naturale, economico, occupazionale, sociale, culturale.
È però impossibile che questo “tiro alla fune” trovi il suo baricentro in un punto che soddisfi tutte le parti e che gli oneri di compensazione possano realmente creare giustizia e soddisfazione tra le parti.
Il territorio diventa quindi campo di disputa e allo stesso tempo oggetto di contesa tra l’industria energetica e la comunità, che, forti ciascuno della legittimità dei propri interessi, ne rivendicano la vocazione. L’aumento della quota di rinnovabili nel mix elettrico mondiale dall’attuale 30% al 50% entro la fine di questo decennio stimato dall’International Energy Agency [3] è una questione di investimenti, di burocrazie, ma anche di spazi e in particolare di luoghi, nell’accezione in cui custodiscono la cultura di ciò che li ha resi tali. Se da un lato la transizione energetica deve necessariamente passare attraverso un aumento della produzione di energia dalle tecnologie oggi più mature – e quindi più invadenti dal punto di vista di occupazione territoriale e deturpazione paesaggistica, fotovoltaico ed eolico su tutte -, dall’altro le comunità difendono il proprio spazio di legittimazione reclamando il cosiddetto effetto NIMBY, ovvero con un “sì, ma non qui”. Allora la contesa del territorio per la comunità diventa un tema di conservazione e tutela del proprio habitat, inteso non solo dal punto di vista ambientale ma che tiene in pancia anche cultura, tradizioni ed economie legate al perimetro di suolo in questione. Vista da una prospettiva impresa-centrica diventa una questione strategica, soprattutto per quelle organizzazioni che fondano il proprio dialogo con le comunità locali attorno alla presenza di infrastrutture e attraverso queste intercettano prospettive ed esigenze degli stakeholder con cui si trovano a convivere e condividere capitali sul territorio.
GENERARE ENERGIE PER IL TERRITORIO
La vocazione territoriale (non vogliamo entrare qui nel merito della correttezza o meno della locuzione dal punto di vista geografico) è centrale nel dibattito. È in palio la destinazione d’uso del luogo, la sua caratterizzazione e il riconoscimento pubblico. L’atterraggio dell’impresa sul territorio mette in discussione gli equilibri e i legami instaurati nel tempo dalla comunità, a favore di nuovi stimoli, che però sono avulsi dal contesto locale e che richiedono un riassetto delle dinamiche esistenti e consolidate, spesso identitarie di quel territorio. Perché questo innesto sia di valore è necessario che la nuova presenza sia generativa e che si integri per quanto possibile con ciò che viene definito come identitario e legittimato da chi vive in loco.
CON QUALI PASSAGGI?
È necessario, prima di tutto, fare in modo che l’atterraggio sia quanto più morbido, ragionando già in fase di programmazione a come poter far convivere i diversi interessi col minor margine di attrito possibile.
Conoscere il contesto, i suoi abitanti ed equilibri è propedeutico per potersi proporre e porre in veste di innesto positivo, in grado di non interferire (o farlo in maniera quanto più lieve) con le dinamiche autoctone reificate nel tempo, ma, al contempo, di valorizzare le potenzialità latenti in una logica di sviluppo biunivoco.
Gli abitanti sono detentori di un “capitale locale” che vogliamo intendere come memoria delle trasformazioni che nel tempo hanno formato l’assetto attuale del territorio. Si tramandano, costruiscono e custodiscono la cultura e la tradizione del luogo. Un dialogo aperto e costante è lo strumento con cui il nuovo abitante può instaurare legami e rendersi consapevole dei bisogni e dei desideri sui quali co-strutturare un approccio responsabile e di valore;
Pensare in ottica preventiva piuttosto che compensativa, andando a intercettare con uno sguardo ecosistemico quei tratti che possano rendere il territorio resiliente alle manifestazioni che ne minacciano la tenuta socio-ambientale. Questo fa sì che l’impresa possa dare un senso e una coerenza agli impegni compensativi di cui si fa carico, in modo da valorizzare la propria presenza e il proprio intervento.
Pensare al domani, come naturale conseguenza del punto precedente, con la consapevolezza che, a tendere, la presenza dell’impresa verrà a mancare. Questo non significa perciò che il valore legato alla sua presenza sia solo di passaggio e destinato a esaurirsi in concomitanza con l’assenza delle infrastrutture, ma che nel tempo abbia generato un’accelerazione la cui inerzia possa essere ancora essere abilitante.
Promuovere il coinvolgimento, sempre in prospettiva ecosistemica, di più attori interessati a condividere la linea di indirizzo generativo, creando alleanze legittimate ed efficaci.
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Note:
[1] Per approfondire leggi l’articolo
[2] Per approfondire leggi l’articolo
[3] Fonte: World Energy Outlook 2023