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So’ bboni tutti

Davide dal Maso, CEO di Avanzi – Sostenibilità per Azioni

Delle tre caratteristiche dell’investimento a impatto, l’addizionalità è la più “rognosa”. Non tanto da realizzare (sì, è difficile anche quello), ma prima ancora da concettualizzare e far digerire ad un investitore.
La misurabilità è facile. Si capisce subito che cosa vuol dire. Anzi, è la prima cosa che ti chiedono: “ma come lo misurate l’impatto”? [Sperano di beccarci in castagna, ma in questo campo siamo bravissimi 😉 ]. E lì, tra teoria del cambiamento, output e outcome, sistemi di monitoraggio e indicatori come piovesse, l’investitore lo tranquillizziamo.
L’intenzionalità è già più complicata, perché ha a che fare con gli obiettivi e spesso, nel valutarli, si rischia di scivolare nel processo alle intenzioni: “questa cosa la fa perché vuole il bene sociale o perché gli conviene?”.

L’intenzionalità consiste nella volontà esplicita e dichiarata di produrre degli effetti sociali positivi. L’impatto intenzionale, cioè, si verifica quando il cambiamento non è un sottoprodotto, magari gradito, di un’attività che è tesa ad altri fini (per esempio, voglio fare profitto e, per raggiungere questo scopo, creo un’impresa che genera occupazione) ma è il motivo per cui faccio quell’attività (creo un’impresa per offrire opportunità di lavoro a chi ne sarebbe escluso). Il confine può essere sottile ma, per semplificare, possiamo dire che c’è intenzionalità quando uno “lo fa perché ci crede”.

Per l’addizionalità, è tutto un altro discorso. Molto più sfuggente. Tecnicamente, (cito Tiresia), “gli investimenti ad impatto sociale intervengono in aree sottocapitalizzate, ovvero in quelle aree di attività che verrebbero altrimenti escluse da qualsiasi altro investitore perché in tali aree il mercato non offre rendimenti ritenuti in linea con le aspettative degli investitori tradizionali”. Significa, in sostanza, essere disponibili ad accettare “disporoportionate risk-adjusted returns” in cambio di un “impatto sociale intenzionalmente perseguito”. In parole povere, l’investimento a impatto è addizionale perché aggiunge risorse là dove il sistema finanziario (che opera secondo logiche di efficienza) spontaneamente non arriva, perché non è così ovvio che gli convenga.

Dal punto di vista di un capitalista “puro”, è un’operazione quasi controintuitiva. Per usare una metafora, la finanza tradizionale si comporta come l’acqua quando c’è un dislivello: va in discesa. Più forte è il dislivello, più veloce (e quindi in maggior quantità) va l’acqua. Nel caso della finanza a impatto, il dislivello è molto lieve. A volte non c’è proprio, è quasi un piano. E quindi l’acqua bisogna spingerla, per fare in modo che arrivi dove vogliamo. Insomma, come dicono i giovani, è un po’ uno sbatti. Per fare investimento d’impatto occorre fare uno sforzo in più, addizionale appunto, rispetto a quello che si dovrebbe fare per un investimento tradizionale.
Per questo sono “irricevibili” molte delle obiezioni che sollevano gli investitori. Tante volte ci siamo sentiti dire “Bello l’investimento a impatto, però è troppo rischioso” oppure “rende troppo poco” oppure “è illiquido” o cose del genere. “Eh già, caro il mio investitore”, verrebbe da rispondere, “perché, se avessi avuto da proporti un investimento molto redditizio, poco rischioso e liquido, secondo te venivo fin qui? No, me ne stavo comodo nel mio ufficio con i piedi sul tavolo ad aspettare che tu venissi da me. E avrei avuto la fila davanti alla porta”.
Con questo, non voglio dire che l’investimento d’impatto sia necessariamente in perdita. Anzi, ci sono molti casi in cui l’impatto sociale è andato di pari passo con il rendimento finanziario. Ma, quando si sono verificati, è stato comunque il risultato di una gran fatica. Si sono dovute immettere risorse addizionali (appunto) a volte economiche, a volte di altra natura, che hanno permesso di far accadere quelle cose che altrimenti (“naturalmente”, vien da dire) non sarebbero accadute.
Ci sono in circolazione fondi che usano il termine “impatto” ma che in realtà propongono investimenti in operazioni il cui razionale economico è talmente ovvio che chiunque ci metterebbe i soldi. Costruire o gestire uno studentato nel centro di una grande città universitaria a tariffe di mercato non crea alcuna addizionalità: anche il più ingenuo degli operatori capisce che lì c’è un business e il fatto di servire una categoria potenzialmente fragile (gli studenti fuorisede) di per sé non significa molto.

Ecco, questo è diventato il mio criterio per capire se c’è addizionalità (e quindi impatto): se, come dicono a Roma “così so’ bboni tutti”, allora non c’è.

In conclusione, l’investimento a impatto è indubbiamente meno efficiente di un investimento tradizionale, ma, se così non fosse, non sarebbe tale.

Per approfondire:

> a|podcast. Startup: fascino e complessità della valutazione d’impatto
> Si fa presto a dire impatto. Valutazione e cultura, cultura della valutazione
> Dieci regole per una valutazione buona e utile

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